La scuola e il disagio giovanile, quale ascolto?
Oggi la scuola può essere pronta a recepire, più che nel passato, l’idea di un ascolto visto come strumento che favorisce la soggettività del ragazzo/a, cioè riconoscere l’alunno come soggetto di parola, come qualcuno che può dire qualcosa di sé, di inedito a partire da un Altro, articolato attraverso il rapporto stabilito con l’insegnante.
Dare spazio a questa soggettività significa promuovere un lavoro didattico fondato sulla prevenzione del disagio, in quanto apre ai ragazzi la strada per un’ elaborazione creativa di un proprio desiderio di vita.
La maggior parte dei disagi adolescenziali della modernità sono l’espressione di una difficoltà di separazione simbolica dall’Altro familiare.
Nell’adolescenza tutti i giovani si confrontano con il problema delle scelta e della perdita; per questo motivo, i ragazzi si trovano alle prese con vicende personali, il più delle volte, connotate da un affetto depressivo.
Se il bambino occupa il posto assegnatogli dai genitori, rispondendo alla domanda e alle richieste dell’Altro, identificandosi a queste per sentirsi amato, nell’adolescenza, invece, il passaggio è dell’ordine inverso, il ragazzo tenta di separarsi dall’identificazione con le aspettative dell’Altro, spesso incarnate dal genitore, dall’adulto di riferimento, per trovare, in modo inedito e non senza rischi, una propria strada nel processo di soggettivazione della sua esistenza.
Spesso, però, questo compito strutturale di separazione può incontrare degli ostacoli, dei fallimenti che si esprimono nella forma di sintomi, disagi psichici o passaggi all’atto di varia natura.
Nella attualità mi capita di osservare disagi giovanili che si esprimono nella forma di affezioni depressive presenti trasversalmente in quelli che nella clinica psicoanalitica vengono definiti “nuovi sintomi” come la dipendenza da sostanze o da oggetti tecnologici, i disturbi della alimentazione, o ancora le manifestazioni di isolamento, di ritiro progressivo del ragazzo dai legame sociali, più comunemente conosciute, come fenomeni di Hikikomori.
In queste forme di disagio come anche nei passaggi all’atto, nelle pratiche di autolesionismo (ad esempio il cutting), viene a mancare una capacità di elaborazione simbolica delle perdite, un modo di sublimare le proprie pulsioni.
In generale, si tratta di disagi caratterizzati da un eccesso di presenza dell’oggetto reale, che impedisce la possibilità di confrontarsi con una propria mancanza. C’è un tirarsi indietro rispetto ad un desiderio, ad un sentimento di vita.
Il vuoto e l’angoscia che possono scaturire dal confronto con il reale delle trasformazioni corporee con il rapportarsi all’altro sesso, lasciano il ragazzo/a del tutto impreparato ad affrontare le comuni difficoltà esistenziali.
E ciò sembrerebbe particolarmente evidente anche a scuola nel manifestarsi di fallimenti scolastici, nella difficoltà a confrontarsi con la frustrazione legata allo studio, tentativi disfunzionali, come, ad esempio, di dire no al sapere dell’Altro.
E’ da tener presente, inoltre, che ogni forma di disagio giovanile, non può essere letta come svincolata dall’analisi degli attuali legami sociali.
In tal senso, Freud rimane attualissimo in quanto, a più di un secolo di distanza, ci parlava, nel suo testo “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io”, del fatto che la psicologia individuale è sempre in origine psicologia sociale.
Il disagio psichico, infatti, va letto all’interno di un legame sociale.
Nella attualità, la società capitalistica ha indotto le persone ad essere considerate dei consumatori, promuovendo come imperativo quello di godere degli oggetti.
Il risultato è stata una rottura dei legami sociali per una prospettiva più individualista della esistenza.
Non a caso, oggi, più che in passato, le forme di disagio psichico si caratterizzano per un problema determinato dalla eccessiva presenza degli oggetti, soldi, internet, droga che vanno a saturare un vuoto con cui, invece, è fondamentale confrontarsi per rispondere creativamente all’ esistenza.
Ecco allora che nel dispiegarsi di tali scenari, la scuola può rappresentarsi come luogo in cui, invece, può essere favorito e messo a lavoro questo processo di separazione simbolica con cui l’adolescente si confronta.
L’insegnante riesce a fare tanto in tale direzione, quando attraverso l’ascolto crea una relazione educativa, in cui la soggettività dell’alunno viene messa in primo piano.
La scuola, dunque, può svolgere una funzione incisiva, perché apre ad un legame sociale rinnovato e sempre rinnovabile, offre uno spazio alternativo a quello familiare, culturale dominante, indirizzando il ragazzo verso una progettualità futura, fatta di speranza, di fiducia.
In fondo la sfida più grande per la scuola credo che sia la possibilità di trasmettere qualcosa dell’arte del vivere.
La funzione dell’insegnante, nella prassi educativa, è fondamentale non solo per identificare le situazioni a rischio ed inviarle ad un professionista per il trattamento psicoterapico o per un consulto psicologico, ma soprattutto per sostenere, nelle quotidiane attività didattiche, una prospettiva di prevenzione del disagio degli alunni, auspicabilmente, anche attraverso un lavoro di collaborazione con lo psicologo.
Il docente può operare dei piccoli grandi cambiamenti, senza supplire né al ruolo di genitore, né tanto meno a quello di psicologo, ma semplicemente svolgendo una funzione di catalizzatore per la curiosità e i processi di apprendimento degli allievi.
Ma a quale ascolto bisogna saper prestare attenzione a scuola?
In genere, quando facciamo riferimento al concetto di ascolto siamo soliti far riferimento ad esso come sola comprensione empatica dell’altro, al fine di identificare, il significato preciso di quanto l’altro vuole comunicarci da un punto di vista delle emozioni, dei contenuti.
Tale tipo di ascolto, basato su concetti di rispecchiamento, empatia, identificazione risulta, senz’altro molto importante perché permette di costruire una relazione educativa efficace, basata su modalità di rapporto dalle coloriture diverse, su cui impostare il lavoro didattico.
Tuttavia, l’ascolto a cui faccio riferimento più che basarsi sulla comprensione in sé, si esprime come ascolto di intendimento.
L’ascolto di intendimento permette di accedere ad una – dimensione altra – del dire di una persona, presuppone il riconoscimento di un’apertura all’inconscio, che sfugge al discorso manifesto della coscienza. Il che significa riconoscere sia in sé che nell’altro, una dimensione creativa del nostro dire che non è esauribile in un senso definito e stabile e apre alla novità.
Questo ascolto ci permette di andare oltre la comprensione intesa come insieme di credenze e convinzioni personali utili ad immedesimarci nell’altro ma, spesso, paradossalmente, di ostacolo al riconoscimento della particolarità di quel soggetto.
In altri termini, si tratta di un atteggiamento di apertura verso un lavoro che rifugge dai protocolli, dalle tecniche standardizzate, per promuovere un’attenzione verso l’altro che sia singolare.
Si esce da una dimensione più speculare della relazione, in cui l’altro sono io e si apre la strada ad un concetto di apprendimento che considera anche il funzionamento inconscio.
Spesso quando ascoltiamo una persona e ci basiamo solo sulle nostre credenze, operiamo un esercizio di padronanza sull’altro, impedendo realmente di favorire l’emergere di elementi di singolarità di quella persona.
E’ la scoperta del primato del significante sottolineata da Lacan, l’idea di parola in cui il significante non coincide mai con il significato, ma al contrario ci rimanda ad altri significanti.
In tal senso il domandare, più che il rispondere dal lato di ciò che sappiamo e comprendiamo, ci permette di dare spazio alla espressione dell’altro e mette anche il nostro interlocutore nella condizione di interrogarsi su quello che sta dicendo e su cosa voglia dire.
La parola, quindi, non è solo qualcosa che si fa veicolo di una informazione, ma è un qualcosa che rimanda all’alterità più autentica di quel soggetto, sulla base di un senso mai chiuso e definito una volta per tutte.
Tutto ciò presuppone, quindi, un funzionamento mentale inconscio che passa attraverso la parola del soggetto e si colloca in superficie, soprattutto nelle impasse della attività cosciente.
In fondo, tutta l’attività cognitiva, compresi i processi di apprendimento, ha a che vedere con una logica che è quella dell’inconscio.
Martines Menes, psicoanalista dell’età infantile si esprime in questi termini: “Il cammino che porta alla curiosità, alla capacità di creare, pensare indispensabile all’apprendimento non è sempre un lungo fiume tranquillo”. Spesso, questo percorso può essere intralciato dal bisogno di dipendenza, dal rifiuto dei limiti. Forme di inibizioni ed angoscia che si possono riscontrare nei giovani a scuola possono essere determinati da diversi fattori inconsci legati alle loro storie individuali.1
Per un ragazzo che non apprende non è esclusivamente sul piano del deficit che andrebbe ricercata la causa della sua difficoltà. Qualcosa, su un piano inconscio, può contribuire a determinare questo fallimento.
“Il rapporto con il sapere si appoggia in effetti, su un desiderio inconscio, del quale desiderio di sapere, la voglia di imparare non è che una manifestazione.” 2
In tale contesto, l’ascolto che evocapuò aprire alla scoperta di qualcosa di inedito per il nostro interlocutore.
La questione è complessa in quanto rimanda al rapporto che ci può essere tra insegnamento ed apprendimento, alla possibilità di aprire nuove forme di apprendimento in cui venga sostenuto il lavoro elaborativo del ragazzo, protagonista attivo di un lavoro di conoscenza.
Ed è proprio la DAD (Didattica A Distanza), in piena pandemia, in un momento storico di grande sconforto collettivo per la mancata possibilità dei ragazzi di poter vivere la scuola e le relazioni con gli insegnanti e compagni in presenza, che sembra ricordarci come tale discorso faccia fatica a prendere forma ma che, allo stesso tempo, possa essere rilanciato come un’opportunità preziosa per ripensare nuovi modi con cui ci rapportarci alle future generazioni.
Promuovere l’ascolto della soggettività nel ragazzo significa trattare in modo singolare e non standardizzato il rapporto del ragazzo con il sapere veicolato dalla scuola.
L’insegnante ha un sapere su degli argomenti, ma è importante che mostri l’incompletezza delle sue conoscenze, che utilizzi questo sapere in modo tale da favorire un transfert singolare sul sapere, la produzione di un investimento erotico del ragazzo sulle questioni e i temi di studio trattati.
E se su un tale punto non ci sono delle ricette comportamentali, in quanto ogni insegnante si gioca questa possibilità sul piano del rapporto con una propria mancanza o desiderio di insegnamento, dall’altro lato, penso che sia importante promuovere degli spazi di riflessione esperienziali per sostenere il docente in questa direzione, anche a partire dall’analisi dei transfert instaurati con gli allievi, alle volte di ostacolo all’apprendimento.
Questo mi sembra auspicabile un po’ in tutte le discipline dall’italiano, alla fisica, dalla matematica alla tecnologia etc, affinché l’adulto veicoli la trasmissione di un sapere che non sia dell’ordine del programma, ma di un sentimento di vita.
Loredana Bove
Psicologa- psicoterapeuta
Bibliografia
-Jacques Lacan, La direzione della cura. Scritti Volume II. A cura di Giacomo B. Contri. Biblioteca Einaudi 2002.
-Graziano Senzolo, Ritrovare il futuro. Per una lettura psicoanalitica dell’adolescenza. Editore Franco Angeli.
-Martine Menes, Il bambino e il sapere. Da dove viene il desiderio di apprendere? Editrice LA SCUOLA. 2013
-Massimo Recalcati, Le nuove Malinconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno. Raffaello Cortina Editore. 2019
-Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Biblioteca Bollati Boringhieri
1 Martine Menes. Il bambino e il sapere. Da dove viene il desiderio di apprendere? Editrice LA SCUOLA. 2013 – pag. 10
2 Martine Menes. Il bambino e il sapere. Da dove viene il desiderio di apprendere? Editrice LA SCUOLA. 2013 – pag. 12